Jazz Isolese

Martedì 12 agosto 2003, ex scalo ferroviario FS.

Il caldo è soffocante. Alle nove metà sedie sono occupate e si rivedono visi quasi dimenticati, mentre per molti è la prima volta che sentono jazz dal vivo.

La mia agorafobia vorrebbe che me ne andassi e rimpiango già questa debolezza estiva in onore della musica del popolo afro-americano.

Che scoperta fu il jazz! Quando si sciolsero i Beatles pensai che il rock era ormai affidato al solo Bob Dylan e quasi per ripicca oltrepassai le frontiere della classica e della lirica.

Tenete presente che allora il rock non era solo musica: era un comportamento e un credo. Rifiutare Claudio Villa, Gianni Morandi e Wilma Goich o, meglio, il Quartetto Cetra, significava schierarsi con i capelloni, ritenere la musica un’emancipazione sociale, proiettarsi in un futuro di libertà. Era insomma una bandiera: dietro di essa vi erano torme di irrequieti che di generazione in generazione si chiamarono figli dei fiori, hippy, punk, metallari e così via.

Mi stupii a sentire non solo Beethoven ma anche Chopin, Bach, Strauss: quante arie mi erano già note! Avanzavo in un mondo che avevo considerato fossile e invece rivelava attualità inaspettate, sonorità vive e, oltre alle tradizioni, anche messaggi per il futuro.

Le Quattro Stagioni di Vivaldi o l’Alleluja di Haendel avevano costituito per la musica ciò che Shakespeare aveva fatto per il teatro: una rivoluzione. Ma ancora oggi indicano all’ascoltatore che la dimensione tempo nella cultura non esiste, che i capolavori nascono dal coraggio, dall’intuizione, dalla preveggenza, dall’ostinazione di un uomo e tale messaggio non si estingue, persiste, modella e influenza le coscienze anche secoli dopo la sua comparsa.

Cioè è sempre attuale.

Se ti senti emozionato nell’ascoltare Bruce Springsteen in Drive all night e subito dopo provi la stessa cosa con il Lieder di Schubert An Sylvia, ebbene, per la proprietà transitiva significa che per te il messaggio dei due Autori è lo stesso.

Dall’Inno alla Gioia passai quasi subito a Verdi, Bellini, Rossini e Puccini: certo, per la lirica il discorso non può prescindere da un palcoscenico; lo spettacolo è l’unico modo per apprezzare totalmente l’opera. Però anche a casa, se togli un po’ di scoria tra un’aria e una cavatina, tra un preludio e un quartetto, come fai a non apprezzare non dico il Va’ pensiero, ma anche Una voce poco fa, Casta diva, La donna è mobile, Un di felice eterea …

E un bel giorno comprai per 1.000 lire il 33 giri Jumpin’ with Woody Herman’s first herd: devo dire che Aldo Adamoli, villeggiante a Giretta, ebbe parecchia responsabilità in tutto ciò. Ancora oggi Blues on parade mi fa andare fuori di testa. Ma all’orizzonte comparve Nutty di Thelonious Monk. Tanto per prendere qualcosa in prestito da qualcuno: niente fu più uguale nella mia vita.

Ricordo ancora quando una sera con Giorgino andai da Giulio Marelli che si stava allenando sul sax tenore. Giorgio soffiò per la prima volta in vita sua in quello strumento e ne uscì abbozzata, rude, imperiosa, Nutty! Lo invidiai, lo ammirai, avrei clonato la sua dote musicale, avrei ipotecato la mia collezione di minerali per poterlo fare anch’io. Mi accontentai di acquistare col tempo almeno 500 long-playing di Miles Davis, John Coltrane, Count Basie, Oscar Peterson, Sonny Rollins, Ornette Coleman ecc ecc.

Se con la musica classica l’orchestra era quasi un suono unico, qui sentivo e imparai a distinguere i singoli strumenti: piano, sax contralto/tenore/baritono, tromba, flicorno, clarino e la voce che diventava pure lei strumento.

Lessi subito I primi del jazz di Milton Mezzrow e poi Free jazz Black power di Carles e Comolli e mi vennero in mente i volantini risorgimentali lanciati alla Scala con su scritto VIVA VERDI: la musica che si fa politica e la politica che si fa musica.

Ebbi così la sensazione che ciò valesse anche per All you need is love, Blowin’ in the wind, per gli Inti Illimani, Garcia Lorca, Quasimodo e per quanti altri recitavano, componevano, strumentavano le aspirazioni di chi voleva un mondo libero, autonomamente scelto e migliore, di chi voleva rompere gli schemi.

A quei tempi il sesso era il centro della nostra libertà individuale: odiavamo le imposizioni conformiste e volevamo esplorare i nostri sentimenti senza tirare in ballo regole e imposizioni. Dal sesso partivano quindi le nostre istanze di democrazia vera e vita da vivere.

L’ancheggiare di Elvis Presley, La Traviata, il solista dei Queen, ma anche Archie Sheep che gridava “Il mio sax è un simbolo sex” erano tutte facce della stessa medaglia.

Però se la musica classica è passione, se il rock è amore, per il jazz c’è solo un termine di paragone: complicità allo stato puro.

Come non ritrovare tutto ciò al vecchio scalo ferroviario quella sera? Avete visto quelle ragazze che muovevano le spalle o le gambe ritmicamente guardando Faraò, Zunino o Bobby?

E quei cinquantenni che alzavano le braccia e ululavano? Cosa era quello se non complicità, cioè la passione e l’amore sommati insieme, quello di tutti i protagonisti di Nove settimane e 1/2 finalmente espressi senza sottintesi malevoli, senza malizia, con grazia e garbo? E quando Durham & C. hanno bissato con Georgia on my mind chi si sarebbe rifiutato di dedicarla al proprio/a partner, chi non si è illuso di conquistarlo/a con un’atmosfera simile?

Sto scrivendo e sento il CD del Bobby Durham Trio: come vorrei che questa fosse la tastiera di un piano! Come vorrei chiamarmi Faraò e suonare per Isola, per il mondo, sottintendendo ad ogni nota che finché c’è musica c’è speranza, che solo i regimi retrivi e totalitari hanno paura dei giovani ai concerti, che dal gregoriano in poi l’uomo ha usato le note e le corde vocali per testimoniare il suo attaccamento alla vita, al meglio.

Ma a tutto questo si aggiungeva l’atmosfera dello Scalo: pensare a una serata così tempo fa era impossibile. Per Isola esisteva solo il Piazzale della Chiesa con la Banda, qualche complesso rock, sempre all’ombra di una festa patronale e come riempitivo tra lotterie, vespri e gare di bocce.

No, l’altra sera non era così. Si usciva di casa per sentire jazz non per vedere chi c’era e chi non c’era. Un altro segnale che Isola è cambiata. Grazie anche al jazz.

© Sergio Pedemonte 2003 – 2019 All Rights Reserved.

Bobby Durham ritratto da Giovanna Calizzano (© Giovanna Calizzano 2006-2018 All Rights Reserved)
Massimo Faraò, il motore del Bobby Durhram Jazz Festival
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